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Ciao Michela, grazie per la disponibilità. Da quanto tempo e come mai hai lasciato l’Italia?
Grazie a te che raccogli le nostre storie e curi questo bel blog!
Ho lasciato l’Italia tante volte. Da sola, dico. La prima volta ero alle scuole medie e andai vicino a Hannover per un corso di lingua estivo suggeritomi dai miei genitori. Partii tra lacrime e singhiozzi. Tornai felice ed entusiasta. Da allora andare all’estero divento’ un appuntamento con le vacanze estive e qualcosa da ricercare sempre. Ad orientarmi verso l’oltreoceano fu un anno all’università in cui condivisi l’appartamento, tanto tempo e tante chiacchiere con un ragazzo di San Francisco. Al termine di quella convivenza quell’America che in passato mi aveva tanto incusso timore per il mezzo giro che il mappamondo doveva fare per mostrarmela, mi incuriosiva, mi attirava, insomma, cullavo il pensiero di un viaggio nel mio nuovo continente. Qualche mese dopo incontrai per caso un professore che mi propose di scrivere la tesi di laurea con lui ma negli Stati Uniti. E fu lì che decisi di salire sul mio primo aereo per l’America. Rassicurando gli immancabili timori e perplessità che sarebbe stata un’esperienza non soltanto interessante ma anche utile per decidere dove ambientare il mio futuro dopo la laurea. Era il 2004. Destinazione Boston.
Cosa ti ha portato a Seattle?
Ancora una volta galeotto fu il compagno di casa di San Francisco che durante quell’anno di convivenza in Italia mi presento’ un suo amico. Un amico molto speciale.
A Seattle venni pochi giorni dopo essermi laureata perché credevo profondamente nel sentimento che mi legava a quel ragazzo molto speciale. Per lungo tempo quel sentimento era stato sballottato tra le sponde dell’Atlantico attraverso fusi orari e dogane: si meritava la possibilità di essere vissuto sotto lo stesso cielo. Ed eventualmente decollare. Ed e’ decollato e ora quell’amico molto speciale e’ mio marito.
Ma in America venni per ambizione, amore, curiosità. Non saprei in che ordine.
Cosa ti piace e come si vive in questa città?
Oggettivamente si vive molto bene a Seattle. E’ un po’ grigia ma, ahimé, ci si abitua. E si esulta quando splende il sole. Non posso negare di aver fatto fatica ad ambientarmi. Non solo per il tempo. Inizialmente Seattle proprio non mi entusiasmava come città. Dopo il primo periodo però, usando la testa e non le sensazioni, ho deciso che, per quanto diverse fossimo, anche Seattle doveva avere qualcosa di bello e unico da offrire. E con questo nuovo atteggiamento non e’ stato poi così difficile riscoprirla ed apprezzarla. In questi anni ho approfittato di quest’angolo di mondo per fare tanta barca a vela, gite in montagna, giri in bicicletta, escursioni nei parchi nazionali, campeggi, tante attività all’aria aperta in un ambiente naturale spettacolare. E quando ora dall’aereo vedo il vulcano Mt. Rainier e Seattle downtown, incorniciata dal blu della Puget Sound e il verde dell’Evergreen State, mi sembra un gioiellino per il quale, finalmente, provo un certo attaccamento.
Di cosa ti occupi?
Quando venni a Seattle per coltivare quel famoso sentimento sbocciato a miglia di distanza, volevo comunque continuare a crescere professionalmente. Così organizzai una internship estiva in un centro di ricerca. Questa intership divenne presto un lavoro e, soprattutto, un’esperienza affascinante in un laboratorio. Una volta raggiunti gli obiettivi che mi ero prefissa, ho ripreso in mano i miei sogni professionali di sempre e ora sono alle prese con l’esame di stato americano di medicina e chirurgia. Faro’ domanda di ammissione alle scuole di specialita’ quest’autunno.
Come è nata l’idea del blog?
Ho seguito diversi blog abbastanza assiduamente per un anno intero. Di perfetti sconosciuti. In quell’anno mi sono accorta che a volte mi affezionavo davvero tanto, che mi trasmettevano tanto e che avevo piacere farlo sapere all’autore. Ogni volta che uscivo dall’anonimato pero’ mi dispiaceva non aver nulla da offrire in cambio. Non poter dire “Se hai piacere, mi trovi qui”. E allora, su incoraggiamento della blogger Marica di vitaasandiego (una persona davvero di cuore), la notte di natale ho dato vita a Pookelina. Per ringraziare tutti i bloggers della compagnia che mi avevano fatto in quell’ultimo anno. E finalmente ricambiarla. Come dice il mio primo post.
Qualcuno ha detto che i giovani in Italia possono giocare solo in serie C o B. Per la serie A si deve andare all’estero. Cosa ne pensi?
Penso che i cosiddetti cervelli (in fuga), soprattutto nel campo della ricerca scientifica e tecnologie, trovino più facilmente la possibilità di inserirsi in serie A all’estero.
Penso anche che nella vita non si giochi solo intellettualmente. Che ci siano altre dimensioni che contribuiscono a definire la serie in cui giochiamo. La personalità, il percorso di vita, le ambizioni, la gerarchia di valori. Credo che ci siano persone che giocano per la serie A in Italia (in questo momento ne ho in mente due di mia conoscenza (e età) ma sono sicura che ce ne siano tante altre). Può essere che forse all’estero avrebbero trovato (ancora) migliori opportunità professionali. Ma allo stesso tempo forse quelle opportunità non avrebbero giovato loro poi così tanto perché non avrebbero rispecchiato i loro bisogni e desideri, perché all’estero queste persone non sarebbero state bene come stanno in Italia, e forse non sarebbero state in grado di giocare in serie A una vita intera.
Ti manca l’Italia?
Mi manca la mia famiglia e mi manca l’Italia che e’ casa, l’Italia che rappresenta le mie origini. Come Paese, mi manca di più quando sono lontana. Quando torno apprezzo ancora tantissime cose. Però, poi, sento che come individuo ci appartengo sempre meno. E sono pronta a ripartire. Recentemente invece ho scoperto che sento tantissimo l’Europa.
Pensi di ritornarci un giorno?
Ora sono qui e sto bene. Se mi dovessi ascoltare adesso, direi che no, non tornerò in Italia. Però… chissà. A vent’anni di certo non pensavo che avrei sposato un americano e sarei andata a vivere dall’altra parte del mondo. Ecco, forse devo dire che sogno sempre di essere più vicina ai miei fratelli. Sono più piccoli di me. E sono in attesa di vedere dove la vita li porterà. E poi cercherò di avvicinarmi. Anche mio marito e’ molto legato ai suoi fratelli. Che in questo momento sono in California: chissà dove saremo! Ma non e’ importante saperlo ora. L’importante e’ saper riconoscere il treno giusto quando passerà al prossimo bivio. E, come Seattle mi ha insegnato, ogni posto ha qualcosa da offrire, qualcosa da insegnare, un nuovo punto di vista, un nuovo approccio, una nuova opportunità. E ora sono contenta di affidare la mia storia all’America.
Infine, che consigli daresti alle donne che vogliono provare la tua stessa strada?
Di ascoltare se stesse e accettarsi. Di ascoltare i propri sogni e crederci. Di avere tanta fiducia in quei sogni: ci vuole coraggio a fare la valigia ma ce ne vuole molto di più a guardarsi dentro, a seguire cio’ che sentiamo, a (ri-)mettersi in gioco e, una volta giunti a destinazione, a ricordarsi perché siamo partite, essere sempre positive e continuare a stare in pista! E si può fare!
Ah, e durante l’università’ di scegliersi un compagno d’appartamento americano :)!
Grazie e in bocca al lupo.
Grazie a te. E soprattutto in bocca al lupo a te, a tutte le tue lettrici, anime nomadi o meno. Ed eventuali lettori.